Attraverso un costante confronto tra ieri e oggi, le fotografie in mostra rappresentano un'opportunità unica per esplorare il passato, il presente e il futuro delle periferie industriali evidenziandone la complessità e le opportunità legate alla rigenerazione di grandi spazi. Riflettere sui cambiamenti sociali, culturali e tecnologici che hanno plasmato questi luoghi nel corso di cinquant'anni permette di aprire una finestra sulle azioni concrete che le istituzioni e le molte associazioni sul territorio portano avanti per disegnare un futuro consapevole delle nostre città e delle nostre comunità. L’esposizione è stata realizzata con la collaborazione di Unione Industriali Torino nell'ambito del programma di Torino Capitale della Cultura d'Impresa 2024 ed è parte del programma di Exposed, Torino Foto Festival 2024.
Paesaggi Industriali. Un viaggio nelle trasformazioni urbane di Torino.
Fino al 26 maggio 2024
Museo Nazionale del Risorgimento Italiano
piazza Carlo Alberto n.8, Torino
L’accesso alla mostra è incluso nel biglietto d’ingresso al Museo.
Apertura dal martedì alla domenica, dalle ore 10 alle ore 18
Info su www.torinospazioalfuturo.it
"Paesaggi Industriali. Un viaggio nelle trasformazioni urbane di Torino"
Introduzione alla mostra - Testo di Silvano Costanzo
I cinquant’anni che hanno cambiato il mondo sono qui, sotto i nostri occhi. Mauro Vallinotto ce li racconta cominciando dall’inizio, quando tutto era in bianco e nero, quando i palazzi crescevano prima che le strade facessero in tempo a raggiungerli, quando ancora nevicava. Non c’è inverno, non c’è maltempo che tenga. Si va al lavoro. Perché si deve. Perché serve. Perché i figli possano andare a scuola. Perfino all’università. Come un tempo era consentito solo ai signori.
Senza bisogno di parole, le immagini mostrano paesaggi urbani ancora acerbi, storie di uomini venuti da lontano, da altri pianeti, da altre galassie. Uomini che indossano il cappello, la camicia di bucato e la cravatta come un tempo facevano per andare a messa. Con i loro baffetti fuori tempo, hanno la faccia stranita di chi non capisce bene cosa stia succedendo, perché adesso non sono in chiesa ma in fabbrica e non c’è un prete che sta declamando un sermone, ma un sindacalista che sta parlando, si presume, di uno sciopero.
Quegli uomini venuti da lontano adesso non ci sono più perché l’età li ha inesorabilmente spenti. I figli e le figlie che loro hanno mandato a scuola - e che non hanno mai dovuto pedalare sotto la neve o dormire sulle panche di legno aspettando l’ultimo treno - ora hanno a loro volta i capelli bianchi e coltivano per passatempo orti di quartiere o fanno esercizi ginnici di gruppo, per mantenersi in salute. I loro nipoti vanno ai concerti o si ritrovano per gli aperitivi o studiano nei riconvertiti impianti industriali che ancora vibrano del frastuono delle presse. Sui campetti da calcio delle periferie i figli dei nuovi immigrati vestono con orgoglio le maglie delle Nazionali dei loro padri, dal Marocco al Senegal.
Oggi gli esterni e gli interni delle fabbriche non si riconoscono più al primo colpo d’occhio. E nemmeno le persone che adesso vi lavorano, che magari indossano tute bianche e che di certo non si macchiano più di grasso. Noi, spesso, non indoviniamo neppure che tipo di lavoro si svolga in quegli interni, cosa si produca, come e per chi. Forse dipende dal fatto che i cinquant’anni che hanno cambiato il mondo ci hanno lasciati incerti riguardo al futuro. Forse dipende dal fatto che nessuno, oggi, può dire con esattezza dove stiamo andando. Guardiamo con timore gli scheletri lugubri delle vecchie fabbriche morte, che non sempre abbiamo saputo o potuto riempire. Sono un’occasione di rigenerazione urbana, ma anche la testimonianza di come la storia possa prendere pieghe inquietanti senza che noi possiamo fare alcunché per evitarlo. O forse sì?
Tra le fotografie di questa mostra ce n’è una che, in apparenza, è di difficile interpretazione. Raffigura l’orma di uno scarpone impressa sulla sabbia all’interno di uno stabilimento. La didascalia spiega che lo scatto è avvenuto in tempi recenti a Mirafiori, ma a chiunque la guardi quell’orma richiama alla mente la più famosa di tutte, quella del piede di Armstrong che per primo si è posato sulla Luna. Per noi, forse irrazionalmente, quell’orma lasciata a Mirafiori sembra essere un segno di speranza. Il segno di un nuovo inizio. Il segno di una storia nella quale, forse, tornerà perfino a cadere anche la neve.
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