martedì 21 ottobre 2025

Il Museo Nazionale del Cinema di Torino presenta fino al 22 febbraio 2026 la mostra MANIFESTI D’ARTISTA. Esposti veri e propri gioielli nascosti provenienti dalle collezioni del museo


Il Museo Nazionale del Cinema di Torino presenta dal 20 ottobre 2025 al 22 febbraio 2026 la mostra MANIFESTI D’ARTISTA, a cura di Nicoletta Pacini e Tamara Sillo, 10 manifesti di grande formato che vanno dal muto al sonoro, ai quali si aggiunge la brochure realizzata da Guttuso per il lancio del film Riso Amaro di Giuseppe De Santis.

Allestita al piano di accoglienza della Mole Antonelliana, le opere in mostra provengono dalle Collezioni del museo, veri e propri gioielli nascosti, nella maggior parte dei casi esposti per la prima volta.

La loro particolarità è di essere incursioni nella cartellonistica cinematografica ad opera di artisti capaci di trasformare l’affisso pubblicitario in opera d’arte a sé stante. Grazie a questi autori, i manifesti assumono un’autonomia artistica che prescinde dai film per cui sono stati realizzati.

Dietro ogni manifesto c’è la mano di un artista eclettico, capace di trasformare in tratto grafico la propria grande creatività. Attraverso le opere di questi autori, occasionalmente prestati alla promozione cinematografica, si percepisce la vivacità culturale degli anni in cui hanno vissuto e operato.

In mostra ci sono opere di pittori celebri come Rodčenko, Prampolini, Guttuso e Baj. A loro si uniscono personaggi eclettici come il disegnatore satirico e scrittore Scarpelli o come Toddi, che nella sua stravagante vita ha fatto anche il regista e produttore per un paio di anni, disegnandosi bellissimi manifesti. E ancora Vera D'Angara, attrice-illustratrice russa che in Italia trova amore e spazio per la sua creatività.

Il Futurismo degli anni Dieci del Novecento si manifesta nelle esplosive e colorate creazioni di Scarpelli per il film Il sogno di Don Chisciotte così come nell'elegante esecuzione di Prampolini per Thaïs, considerato l'unico film italiano futurista sopravvissuto. Con Toddi e Vera D'Angara, coppia di artisti fra le più originali della storia del cinema e dell'illustrazione, si gode della raffinatezza grafica degli anni Venti votata alla piacevolezza estetica.

Lontano da ogni cedimento estetico ma, al contrario, manifestazione di un chiaro messaggio politico è il celebre manifesto de La corazzata Potëmkin ideato dal russo Rodčenko, fondatore del Costruttivismo. Un affisso di grande potenza visiva, rarissimo, considerato fra i più emblematici della fusione fra cinema e arte.

Se la stagione del cinema muto è testimoniata da opere così rappresentative, anche l'epoca del sonoro ha avuto i suoi manifesti d'artista. I registi Giuseppe De Santis, Francesco Rosi, i fratelli Taviani hanno scelto di affidare ai pittori Guttuso e Baj la realizzazione di materiali pubblicitari che, uscendo dai canoni tradizionali della promozione cinematografica, divengono interpretazioni personali e autoriali.

Arte e cinema camminano parallelamente, a volte si incontrano, si scambiano i ruoli, raccontando quella ricerca di sperimentazione che in realtà è una potente affermazione artistica.

La mostra è allestita secondo i criteri del Design for All, al fine di favorire un’agevole fruizione per tutti i visitatori. In particolare, sono presenti 3 pannelli multisensoriali che offrono: riproduzioni visivo-tattili del manifesto di Enrico Prampolini, Filiberto Scarpelli e Enrico Baj con guida audio italiano e inglese all’esplorazione tattile. Ciascun pannello di testo presenta una traduzione con interprete LIS e lettura audio del testo, fruibili tramite QR e NFC.

Biglietto dedicato a 4 euro per la sola mostra Manifesti d’artista.

La mostra è inclusa nel biglietto della visita al Museo Nazionale del Cinema.

Per info e acquisto biglietti www.museocinema.it


LA OPERE IN MOSTRA E GLI ARTISTI

A cura di Nicoletta Pacini e Tamara Sillo

 

VERA D’ANGARA

Vera Michajlovna Natenson

(Elizavetgrad, 7 settembre 1886 – Roma, 14 settembre 1971)

Attrice, pittrice, illustratrice, Vera D’Angara rappresenta un caso davvero unico: quello di un’attrice che ha realizzato il manifesto di un film da lei interpretato.

Cresciuta in Siberia, a Irkutsk, dove scorre il fiume Angara (a cui si ispira per il nome d’arte), va a Parigi a studiare pittura all’Académie des Beaux-Arts. Frequenta i circoli artistici russi, si sposa due volte, vive il fermento culturale parigino e si unisce alla compagnia teatrale di Georges e Ludmilla Pitoëff.

Allo scoppio della guerra va in Svizzera dove continua a fare l’attrice e la pittrice. Rimasta vedova, si trasferisce in Italia ed è qui che nel 1919 incontra il conte Pietro Silvio Rivetta di Solonghello (in arte Toddi), diplomatico e intellettuale dai mille interessi. Alla ricerca di un’attrice per la sua nuova passione – il cinema – Toddi vede in Vera la donna ideale. Tra i due nasce un sodalizio d’arte e d’amore indissolubile e la introduce nel mondo della grafica dove diventa illustratrice per periodici (“Noi e il Mondo”, “Il Travaso delle idee”, “Yamato”) fino alle grandi tavole di “Momotarō. Fiabe giapponesi come sono narrate ai bimbi del Giappone” tradotte da Toddi stesso.

Tornando all’avventura nel cinema, diventa attrice, e talvolta soggettista, in una decina di film, quasi tutti della Selecta-Toddi, casa di produzione fondata dalla coppia. Per il film Al confine della morte, da lei interpretato, si trasforma in cartellonista rivelando un innato talento: si ritrae aggraziata ed eterea, accarezzata da una pioggia di fiori, immersa in un paesaggio mosso dal vento, riuscita interpretazione Liberty che volge già all’Art Déco. Il bordo superiore arrotondato dell’immagine ne esalta l’armonia e l’assenza del titolo del film (usuale ai tempi del cinema muto) conferisce al manifesto un’ulteriore autonomia artistica.

ENRICO PRAMPOLINI

(Modena, 20 aprile 1894 – Roma, 17 giugno 1956)

Pittore, scultore, scenografo, scrittore d’arte, organizzatore di eventi culturali, Prampolini èstato un artista a tutto campo, sempre in contatto con le avanguardie europee. Nel 1917 partecipa al film Thaïs come scenografo e grazie soprattutto alle sue ambientazioni questa pellicola è considerata l’unico esempio giunto a noi di cinema italiano fortemente influenzato dal Futurismo. Il film è un melodramma d’amore e di amicizia con finale tragico che vede protagonista l’attrice Thaïs Galitzky nei panni di una bella e crudele contessa russa, Vera Preobrajenska, nota in campo letterario con lo pseudonimo di Thaïs.

Prampolini, che aveva aderito al movimento futurista nel 1912 frequentando lo studio di Balla, inventa ambienti dalle forti potenzialità evocative e oniriche: motivi geometrici, spirali, losanghe, rimandi metaforici creano un mondo quasi irreale in cui la femme fatale si integra perfettamente. Per questo film Prampolini si occupò anche di creare il manifesto promozionale. Pur ispirandosi a una scena del film, la reinterpreta in modo personale proponendo Thaïs in una posa stilizzata e antinaturalistica, quasi “incorporata” nella poltrona su cui è elegantemente seduta e ne esalta la figura con un abile uso timbrico dei colori. Gli occhi truccati di nero in maniera accentuata sono un chiaro rimando a una delle sue scenografie, una stanza della casa di Thaïs le cui pareti sono decorate proprio con grandi e inquietanti occhi bistrati. Sicuramente un affisso di grande efficacia visiva.

TODDI

Pietro Silvio Rivetta

(Roma, 8 luglio 1886 – Roma, 1 luglio 1952)

Il conte Pietro Silvio Rivetta di Solonghello – noto con lo pseudonimo di Toddi – è uno degli


intellettuali più eclettici del Novecento. Giornalista e direttore di testate come “La Tribuna illustrata” e “Il Travaso delle idee”, esperto conoscitore della lingua italiana (con cui amava giocare: scrisse uno dei primi libri di enigmistica), poliglotta appassionato alla cultura orientale (lavorò all’ambasciata italiana a Tokyo e 
più tardi fu professore di cinese e giapponese al Regio Istituto Universitario Orientale di Napoli), brillante illustratore e scrittore, artista vicino ai futuristi, conduttore radiofonico e, quel che più interessa in questa sede, cartellonista, regista e produttore cinematografico. Attratto dal cinema, all’inizio si cimentò disegnando manifesti per qualche produzione romana (giudicati eccellenti da un critico dell’epoca per le “intonazioni Klimtiane”). Nel 1920 diresse il suo primo film Il castello dalle cinquantasette lampade per poi fondare la casa cinematografica Selecta-Toddi insieme a Vera D’Angara, sua compagna di vita, disegnatrice e attrice russa. La loro avventura cinematografica durò solo un paio d’anni con la produzione di una dozzina di film tutti diretti da Toddi, con Vera D’Angara quasi sempre prima attrice e in qualche caso soggettista.

I manifesti sicuramente furono disegnati tutti da loro, tra quelli sopravvissuti, Le due strade e Fu così che… portano la firma di Toddi e si distinguono per il tratto stilizzato in stile Art Déco con rimandi al Liberty. Quello di Fu così che… – commedia che racconta la lavorazione di un film – ha inoltre l’originalità di raffigurare il sinuoso disegno di una pellicola come elemento evocativo e disvelatore del cinema stesso.

FILIBERTO SCARPELLI

(Napoli, 29 giugno 1870 – Roma, 20 agosto 1933)

Giornalista, scrittore, caricaturista, fu tra gli artisti che nel 1900 rilevò la testata “Il Travaso delle idee”, contribuendo a farne uno dei giornali più famosi della storia della satira. Con il suo stile ironico collaborò anche a tante altre testate giornalistiche. Legato al movimento futurista, partecipò anche alla famosa “Grande Serata Futurista” al Teatro Verdi di Firenze dove il pubblico lanciò per due ore di seguito frutta, patate, uova, pastasciutta, lampadine, contro i futuristi Marinetti, Boccioni, Carrà, Palazzeschi e tutti i partecipanti, compreso Scarpelli, fino a che non intervenne la polizia.

Il legame con il Futurismo è riconoscibile negli spettacolari manifesti che creò per pubblicizzare il film Il sogno di Don Chisciotte, una satira politica sulla Prima Guerra Mondiale. In essi Scarpelli esibisce l’innato talento caricaturale unito a un forte dinamismo e a scomposizioni visive di stampo futurista. Il talento dell’artista era stato già applaudito dai suoi contemporanei. In un articolo del 1916 di lui scrivono: “… ci ha dato dei veri capolavori del suo personalissimo genere, in alcuni cartelli satirici d’una efficacia immediata e altamente suggestiva. Lo Scarpelli, dandosi al nuovo lavoro, non ha voluto seguire alcuno; non s’è curato degli altri, ma si è lasciato guidare dalla sua fantasia, così come aveva fatto sempre in tutte le sue molteplici manifestazioni artistiche. Ed ha fatto benissimo, perché ha saputo dimostrare quanto inesauribile sia la risorsa delle sue trovate. Egli si basa principalmente sull’efficacia e il contrasto dei colori. Ne risultano così cartelli pieni di vita, che si fanno guardare (e

questo è l’importante) e che si fanno anche ammirare per la singolare originalità.”

Merita un commento anche la sua inconfondibile firma: il disegno di un paio di piccole scarpe con a fianco la desinenza “-lli” a formare la parola Scarpelli, divertente suggello della sua vena umoristica.

ALEKSANDR MICHAJLOVIČ RODČENKO

(San Pietroburgo, 23 novembre 1891 – Mosca, 3 dicembre 1956)

Pittore, grafico, fotografo, fra i principali artisti dell’avanguardia russa e fra i fondatori del


Costruttivismo, Rodčenko presta la sua arte anche alla cartellonistica cinematografica collaborando con i grandi registi Dziga Vertov e Sergej M. Ėjzenštejn. Crea per loro alcuni memorabili manifesti rappresentativi di un’epoca, quella dell’Unione Sovietica degli anni Venti, della Rivoluzione d’Ottobre, del ruolo del cinema (e della grafica) come forza rivoluzionaria, educativa e sociale. Erano anni in cui gli artisti, condividendo gli ideali della rivoluzione, collaboravano fra loro in nome di un’arte che fosse parte attiva del processo di cambiamento.

La corazzata Potëmkin, passato alla storia come il film sovietico per antonomasia grazie alla maestria di Ėjzenštejn, celebra la rivoluzione rievocando la rivolta dei marinai dell’incrociatore Potëmkin contro le truppe zariste nel 1905.

Il manifesto incarna in pieno questo spirito con un’immagine in cui scritte, numeri e illustrazione si integrano in una composizione geometrica essenziale e poco incline a superflui cromatismi, perfettamente aderente ai canoni del Costruttivismo. La corazzata si staglia frontale verso lo spettatore, gloriosa e minacciosa, con i cannoni che paiono uscire dall’immagine, la scritta 1905 suggella la data dell’evento rivoluzionario. Un forte messaggio celebrativo reso ancora più enfatico dalla frase di lancio che risalta sul bordo superiore del manifesto “L’orgoglio della cinematografia sovietica”.

Nel 2025 ricorre il centenario de La corazzata Potëmkin, il film più omaggiato della storia del cinema.

Alfred Hitchcock (Il prigioniero di Amsterdam), Francis Ford Coppola (Il padrino), Woody Allen (Il dittatore dello stato libero di Bananas e Amore e guerra), Terry Gilliam (Brazil) e soprattutto Brian De Palma (The Untouchables – Gli intoccabili) sono tra i registi che nei loro film hanno scelto di citarne scene epiche (in primis quella del massacro sulla scalinata di Odessa che si chiude con la carrozzina

che precipita tragicamente lungo le scale). Per il pubblico italiano La corazzata Potëmkin è indissolubilmente legata a Il secondo tragico Fantozzi. La arcinota battuta pronunciata dal ragionier Fantozzi “Per me la Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!” è probabile che abbia portato spettatori curiosi a vedere per la prima volta il film di Ėjzenštejn.

A distanza di 100 anni il film rimane una pietra miliare del cinema perché esemplifica l’innovazione del linguaggio cinematografico di Ėjzenštejn, in particolare il suo uso potente del montaggio come arma di coinvolgimento del pubblico. Il regista, per esempio, non mostra con chiarezza che cosa sta avvenendo ma accosta inquadrature incalzanti e parziali che creano smarrimento e inducono nello spettatore un’associazione di idee per capire il senso di quanto mostrato; oppure utilizza il “cinepugno” ovvero inquadrature impressionanti che colpiscono come un pugno o ancora immagini che montate sequenzialmente assumono significati metaforici e simbolici. E la capacità di coinvolgimento del pubblico può considerarsi riuscita se un regista agli antipodi di Ėjzenštejn come l’americano Billy Wilder confessò che, dopo aver visto il film, uscì dalla sala sentendosi anche lui un rivoluzionario.

RENATO GUTTUSO

(Bagheria, 26 dicembre 1911 – Roma, 18 gennaio 1987)

Pittore e uomo di cultura impegnato politicamente, è stato uno dei maestri dell’arte del Novecento, celebre per i paesaggi siciliani, da cui traspare l’attaccamento alla sua terra, e per l’impegno politico che si esprime in dipinti di denuncia sociale. Incontra il mondo del cinema negli anni Trenta: frequenta Luchino Visconti e Giuseppe De Santis con i quali condivide un forte antifascismo che lo porta a iscriversi al Partito Comunista. Decenni dopo sarà anche eletto senatore. Quando nel 1948 De Santis gira Riso amaro per la pubblicità del film pensa a Guttuso. Il regista racconta: “le mondine non potevano che essere un tema per nessun altro pittore che non fosse Guttuso: il loro rapporto con il lavoro, lo stare seminude in acqua tutto il giorno, la carica di sensualità che emanavano in tutti i loro atteggiamenti, l’aggressività dei loro sguardi e dei loro comportamenti, erano tutte componenti di un universo femminile e umano che appartenevano solo al modo di fare pittura di Guttuso.” Il pittore non andò mai sul set, gli mandarono delle foto scattate dal famoso fotoreporter Robert Capa per “Life” perché fossero d’ispirazione, ma così non fu. Capa immortalò una sequenza che non corrispondeva alla visione di Guttuso. De Santis continua: “… era una sequenza tutta giocata sui colori plumbei della pioggia e sulla esecrazione della miseria umana, troppo ieratica e materna per lui che, non senza ragione, la risaia la sentiva come un’esplosione di sessualità femminile esposta tutto il giorno al sole

[…] Era la risaia di Silvana Mangano, fiera, spregiudicata, arrogante, metà dea metà donna […] Guttuso la pose al centro delle acque e ne fece il bersaglio dei suoi colori accesi, di rosso di nero di verde di giallo, i suoi colori di sempre.”

KAOS

Il film è liberamente tratto da Novelle per un anno di Luigi Pirandello e i fratelli Taviani, unendo il proprio stile raffinato all’universo letterario dello scrittore, girano un film fra i più poetici del cinema italiano.

L’ambientazione è la Sicilia rurale, arida, assolata. Nessuno poteva rappresentare questo mondo meglio di Guttuso, cantore della sua amata Sicilia di cui ha celebrato limoneti, ulivi saraceni, cactus, scorci marini.

Sul manifesto il pittore ripropone uno dei suoi paesaggi tipici, rigogliosi fichi d’India che si stagliano su uno scorcio marino soleggiato e pacificante, ma ci aggiunge un inquietante corvo a cui, con licenza poetica, colora becco e zampe di giallo. L’uccello è il protagonista della novella “Il corvo di Mìzzaro” che i Taviani inseriscono come trait d’union fra le novelle raccontate nei vari episodi del film. Ce lo mostrano volteggiare in cielo, con un campanellino tintinnante attaccato a una zampa, osservatore degli eventi narrati. Guttuso si rifà alla prima sequenza del film nella quale il corvo viene ripreso a testa in giù e lo dipinge come un rapace che si abbatte in picchiata sulla quiete della campagna, quasi a simboleggiare un presagio di cattiva sorte.

ENRICO BAJ

(Milano, 31 ottobre 1924 – Vergiate, 16 giugno 2003)

Pittore e scultore multiforme, considerato uno dei maestri della neoavanguardia italiana e


internazionale, Enrico Baj fu chiamato direttamente dal regista Francesco Rosi per pubblicizzare il suo film. Questo risulta da un’interessante lettera manoscritta di Baj a Rosi, conservata nell’archivio storico del Museo Nazionale del Cinema, nella quale il pittore lo elogia per la bravura e lo ringrazia della collaborazione che gli ha offerto con Cadaveri eccellenti. È dunque lo stesso Rosi a volere l’arte di Baj come canale comunicativo per il suo film. Il pittore è il giusto interprete di quel mondo equivoco e corrotto che Rosi denuncia nella sua storia, ispirata a un romanzo di Leonardo Sciascia, che vede il commissario Lino Ventura indagare su una serie di assassinii di importanti magistrati tra servizi segreti, golpe, mafia, politica e manifestazioni di piazza. È la visione critica di Rosi dell’Italia degli anni Settanta.

Baj condivide questa visione e crea una carrellata di mostruose creature che sembrano uscite da tante altre opere della sua prolifica attività artistica, in primis I Generali, tema figurativo ampiamente esplorato dal pittore. All’estrema destra dell’affisso è proprio un generale pluridecorato ad aprire la sfilata di mostri, accompagnato, in una sorta di danza macabra, da altri membri più o meno riconoscibili del potere costituito. Una perfetta integrazione fra cinema e pittura che fa di questo manifesto uno dei suoi esempi più riusciti.

 

Nessun commento:

Posta un commento